Vitigno Camaiola ora iscritto al Registro nazionale delle varietà di vite da vino

Sul finire della scorsa settimana, il deputato sannita Pasquale Maglione ha annunciato che il Gruppo di lavoro permanente per la protezione delle piante - sezione materiali di moltiplicazione della vite ha espresso il parere positivo al dossier presentato dal Sannio Consorzio Tutela Vini per l'iscrizione del vitigno camaiola al Registro nazionale delle varietà di vite da vino. Si attende ora solo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto del Ministero per le politiche agricole, alimentari e forestali, che farà di questa varietà la prima coltivata esclusivamente nella provincia di Benevento ad entrare nel citato Registro.
La camaiola è coltivata particolarmente nell’areale telesino. Il piccolo centro di Castelvenere, il "comune più vitato del Sud", rappresenta il cuore della ragnatela dei produttori affezionati a questo vitigno da cui si ricavano vini dal fascino antico ma dal volto moderno. Un vitigno che per oltre un secolo è stato erroneamente accostato semanticamente alla barbera di origini piemontesi.
Una confusione che si origina proprio a Castelvenere, all'alba del Novecento. In quel periodo si trovano tracce di abbondante coltivazione di uva camaiola, che pochi anni dopo finì con legare il suo nome a quello del vino Barbera. La storia è lunga, si intreccia con l’emigrazione temporanea nel Nord America di quelli che poi diventarono i primi produttori-imbottigliatori castelveneresi. Questi, conobbero Oltreoceano la grande notorietà del vino Barbera, che era allora il vino più famoso al mondo e, non a caso, quello più imitato e "falsificato" nel nome. La vicenda si intreccia con un'altra storica curiosità che contraddistingue Castelvenere, che proprio in quegli anni viveva la fase più frenetica dell'attivismo di una cellula valdese, che aveva preso vita nel 1877. E si intreccia – vuole il caso – con la necessità di quei vignaioli di distinguere il proprio prodotto rispetto al "vino Solopaca", che in quei decenni andava affermandosi con forza, con il nome che si affermò grazie anche al fatto che quella di Solopaca era la stazione ferroviaria da cui partivano i vini diretti al Nord e Oltralpe, dove la fillossera aveva infierito sulle vigne.
La presenza valdese ha forse inciso anche sul nome dei vitigno, considerato che Camaiola è un termine di cui non si trova traccia negli antichi vocaboli dialettali sanniti. Viceversa, in più opere di lingua francese che affondano le radici nella lingua occitana-provenzale (la lingua ufficiale dei valdesi), alla voce "camaia" leggiamo: «Noircir, barbouller de noir, tacher. La vìgne se camaia; le raisin commence à tourner».
Un termine, dunque, che ben identifica una varietà capace di «macchiare di nero», un’uva dall’alto potere colorante, proprio come questa barbera che barbera non è, utilizzata nei decenni scorsi per «colorare» i vini, proprietà esaltata anche con tecniche di concentrazione (sul fuoco o infornata secondo l’antica tecnica detta «acinata»). Quest’uva, fino a quando la maggior parte del prodotto dell’area (che costituisce la «cantina della Campania») veniva smerciato sotto forma di frutto, veniva trasformata esclusivamente in loco, a causa delle caratteristiche della sua buccia che ne rendevano praticamente impossibile il trasporto.
Il colore è sicuramente uno dei tratti distintivi di questo vino: rosso intenso con marcati riflessi violacei. Ma è al naso e al gusto che la sua identità si palesa: frutta rossa matura, frutti del sottobosco e marcata rosa, con accennate note vegetali; sorso pieno, intenso, morbido, poco tannico, con il finale affidato al ritorno di frutta.
Parliamo di caratteristiche che lo fanno vino della festa e dell’allegria, vino della convivialità, ma non per questo banale e facile. La Camaiola è un vino moderno, perché leggero e bevibile, godibile su tanti piatti tipici della cucina campana. Un vino al tempo stesso antico, per il suo essere profondamente radicato al territorio e a varie tecniche di vinificazione, gelosamente custodite da sapienti produttori.

Pasquale Carlo

Il Sannio Capitale Europea del Vino 2019

Il Sannio sarà la Capitale Europea del Vino 2019. Le realtà di Castelvenere, Guardia Sanframondi, Sant’Agata dei Goti, Solopaca e Torrecuso - in rete per la candidatura del territorio “Sannio Falanghina” – hanno ottenuto il prestigioso riconoscimento assegnato da Recevin, la Rete comunitaria delle 800 Città del Vino. Il concorso è unico nel suo genere e si pone l’obiettivo di mettere in risalto l’influenza della cultura enologica ed enoturistica nella società, nel paesaggio, nell’economia, nella gastronomia e nel patrimonio e il suo valore per l’Unione Europea.

Dopo il Portogallo, con Torres Vedras-Alenque “Città Europea del Vino 2018”, l’ambito titolo di Recevin ritorna all’Italia, con il territorio campano che ottiene tale fregio dopo quello di Marsala (2013) e quello di Conegliano-Valdobbiadene (2016). Per l’intero corso del 2019 è previsto un ricco programma di appuntamenti, eventi, manifestazioni culturali ed enogastronomiche che animeranno i cinque Comuni che hanno avanzato la candidatura e l’intera Valle del Calore, territorio dove si coltiva il 40% dell'intera produzione viticola della Campania.

Un riconoscimento meritato, che consolida la mia personale convinzione, sulla crescita di un’area, che oltre ad essere vocata al vino, offre la possibilità di scoperte territoriali straordinarie. L’investitura del Sannio rappresenta un significativo riconoscimento dello storico legame di questa  terra con il vino, con le sue produzioni di eccellenza, che nascono dall’impegno di viticoltori appassionati che ho avuto modo di conoscere e apprezzare, il cui prezioso lavoro è fondamentale non solo per la produzione di ottimi vini, ma anche per l’impagabile ruolo di sentinelle di un territorio di qualità.

Il Sannio, che ho percorso e conosciuto grazie a Pasquale Carlo, coordinatore regionale di Vinibuoni d’Italia per Campania,  è un territorio suggestivo, con una grande storia che ha lasciato testimonianze importanti, con un patrimonio unico di ricchezze. Un territorio appetibile come meta turistica, che, se saprà  mirare la propria comunicazione, sarà in grado di stimolare la curiosità e l’interesse dei flussi enoturistici nazionali ed internazionali.

Mercoledì 12 dicembre alla Camera dei Deputati a Roma saranno presentate le linee guida e gli obiettivi del progetto “Sannio Falanghina”. L’appuntamento in programma alla Camera dei Deputati, organizzato grazie all’interessamento della deputata sannita Angela Ianaro (componente della XIV Commissione – Politiche dell’Unione Europea), prevede due distinti momenti. Alle 14.30, nella Sala stampa di Montecitorio, ci sarà una conferenza che sarà anche trasmessa in diretta web-tv.

Dalle ore 12.00 alle ore 15.00, lo spazio antistante la buvette del Palazzo della Camera ospiterà un banco di degustazione con vini ottenuti da uve falanghina. Al banco si potranno degustare le etichette ‘Falanghina del Sannio Dop’ o ‘Beneventano Falanghina Igp’ delle aziende dei cinque comuni che hanno dato vita al progetto ‘Sannio Falanghina’.

 

Mario Busso

 

Galeotta fu la Falanghina

Come scriveva tempo fa Luciano Pignataro nella sua guida ai vini del Sannio: “Benevento  è la dispensa del vino campano: questa magnifica provincia, ricca di verde e facile da percorrere in lungo e in largo, produce da sola oltre la metà del prodotto Doc e Igt”.  

Una dispensa sì - condivido - , ma certamente anche uno scrigno prezioso di prelibatezze enoiche e gastronomiche che ho avuto modo di conoscere e gustare direttamente in un mio recente viaggio nel Sannio.

Galeotta fu la Falanghina, che non annoverando alcuna corona nell’edizione 2017 della guida Vinibuoni d’Italia, ha invogliato una produttrice, Mariateresa De Gennaro titolare con il marito Piero dell’azienda Rossovermiglio, ad invitarmi in loco per approfondire meglio il mondo in cui il vitigno nasce. Un invito condiviso dal Consorzio di tutela dei vini del Sannio che mi ha onorato di una guida speciale, Carlo Pasquale, che non solo conosce ogni zolla del territorio, ma ha saputo svelarmelo con passione e dovizia.

Il paesaggio del Sannio Beneventano ha qualche cosa di magico. Uno sguardo alla Dormiente, ovvero il massiccio calcareo del Taburno quasi isolato nella sua imponenza dall’Appennino campano, dà un senso di antica autorevolezza, ma anche un’aura di protezione estesa ad una regione dalla lindezza svizzera che poco ha a condividere con gli stereotipi con cui spesso si dipinge la Campania.

Una montagna solenne che suscita rispetto ed evoca le glorie storiche del popolo Sannita nelle epiche lotte ingaggiate da Roma per domare sotto il suo gioco una popolazione irriducibile e orgogliosa della propria libertà.

Oggi il Sannio vive la sua viticultura nel segno di una consolidata tradizione contadina e con una attiva presenza di imprenditori di settore che esaltano la vocazione del territorio. La visione del futuro poggia sul vissuto quotidiano dove storia e cultura si mescolano in un paesaggio naturale e rilassante.

La storia è parte di questa cultura ed è consolidata dai ritrovamenti effettuati che permettono di affermare che la coltivazione della vite nella provincia di Benevento ha origini antiche risalenti al II secolo a.C.
 Infatti nel paese di Dugenta è stato ritrovato un imponente deposito, con relativo forno di produzione, di anfore utilizzate per la conservazione ed il commercio del vino. Gli studiosi non hanno dubbi nell’affermare che questa fabbrica di anfore aveva stretta attinenza con la produzione e il commercio del vino, che serviva a soddisfare non solo la richiesta locale, ma anche quella di altre popolazioni.


Le emozioni della storia hanno accompagnato in ogni sito il mio viaggio, arricchite ogni volta da testimonianze tuttora vive, come gli antichi torchi risalenti al ‘500, le tradizionali vetuste masserie in pietra ristrutturate e restaurate, capaci di unire antichissime glorie all’attualità. Un’attualità di produttori intraprendenti sempre di più attenti al biologico e protagonisti di progetti di ricerca e di sperimentazione. Proprio quello che oggi deve rappresentare il vino italiano nel contesto del mercato globale: qualità del prodotto, ma soprattutto la correlazione del vino con i valori “immateriali” che questo sa raccontare grazie alla sua unicità, identità e rarità.

Qui, nel Sannio, i vigneti si colorano di storia e ogni versante diventa testimone della biodiversità che intercorre da una zona all’altra. Le vigne si fanno racconto di cultura, come depone quella vigna centenaria ubicata in contrada “Pantanella”, dove la Cantina del Taburno raccoglie le uve per il Bue Apis, vino prodotto esclusivamente con bacche di Aglianico amaro, l’antico clone originario.

Altrove i filari ci invogliano a ricordare uve antiche come l’Agostinella, la Barbetta, il Sommarello, lo Sciascinoso, il Grieco, la Malvasia, l’Olivella, il Carminiello, la Palombina.. le cui specie - non tutte - ritroviamo nel vigneto didattico dell’Antica Masseria Venditti di Castelvenere, risalente al 1595. Qui, la sosta conviviale della sera, ha portato in tavola, nei piatti di tradizione cucinati dalla signora Enza Verrillo, moglie di Nicola, il gusto e l’evocazione di un rituale ecumenico benedetto dalla sacralità del cibo.

In questa opera disegnata dall’uomo in collaborazione con la natura, la bianca Falanghina, unitamente alla vigorosa e possente intonazione dell’Aglianico, è vino soprano che gorgheggia autoctono.

Falanghina perchè?

L’origine del vitigno, come per molte varietà del sud Italia, viene fatta risalire alla colonizzazione greca. La Falanghina è diffusa un po’ ovunque nelle regione Campania, tuttavia le zone più vocate si trovano nel Sannio e nell’area vulcanica dei Campi Flegrei. Diversi i cloni, differenti per forma e per dimensione, ma molto simili per caratteristiche organolettiche.

Una prima interpretazione individua la Falanghina come figlia del Falerno Bianco, antico vino campano già conosciuto al tempo degli antichi Romani. Il suo nome deriverebbe pertanto dalla radice Falerno o Falernina.

Altra ipotesi, invece, fa derivare il nome dalla parola falanga, antico sinonimo dei pali utilizzati per sostenere le viti.

Negli ultimi decenni, la Falanghina ha abbandonato il ruolo secondario che le veniva attribuito, per affermarsi come una delle varietà a bacca bianca più apprezzate della Campania. La coltivazione con basse rese, le vinificazioni sempre più accurate, ne hanno fatto un vino di buona personalità.

La Falangina del Sannio Doc viene declinata nelle sottozone di Solopaca, Guardiolo, Taburno e Sant’Agata dei Goti. Il clima fresco del territorio, con escursioni termiche, piuttosto decise, l’origine vulcanica dei suoli ricchi di minerali donano al vino un profilo elegante, con piacevole freschezza e sapidità finale.

Ed è così che si sono presentati i calici degustati all’Enoteca comunale di Castevenere, sotto la guida di Carlo Pasquale e in collaborazione con il mio coordintore Andrea de Palma. Vini, che negli stili diversi dei produttori e con le più o meno marcate influenze pedoclimatiche delle aree di provenienza, hanno accomunato un profilo sensoriale dove il profumo era dominato da note fruttate di mela e frutti esotici; richiami floreali di ginestra e di biancospino; vini piacevoli e freschi di acidità, sostenuti da uno scheletro portante sempre dritto.

Ma la sorpresa è arrivata dalla versione 2008 “Facetus” dell’azienda Fontanavecchia di Orazio e Libero Rillo, che si è espresso al naso con un complesso bouquet olfattivo, con richiami di albicocca essiccata e frutta candita; fine la struttura muscolare e insistente la freschezza corroborata da lunga persistenza. Qui la Falanghina ha dimostrato di saper integrare a meraviglia le componenti fruttate e varietali con quelle terziarie.

E’ dunque verità il claim elaborato dal Consorzio “Nel Sannio coltiviamo emozioni”. Ne ho avuto riprova dai commenti favorevoli della mia coordinatrice Piera Genta, che ha partecipato a metà marzo al wine-tour promosso appunto da Consorzio, che ha dato l’opportunità ad importanti giornalisti del settore di scoprire il ricco territorio viticolo sannita e degustarne la variegata produzione enologica, con un’attenzione particolare rivolta alla gastronomia, alle bellezze paesaggistiche ed architettoniche e alle ricchezze artigianali. Un modo per fare sistema, con il vino volano di promozione turistica.

Ora bisogna insistere nella comunicazione per portare questo tassello del ricco mosaico enologico italiano agli onori che merita.

Ben vengano, in questo senso, personaggi appassionati e competenti come Mariateresa De Gennaro, che richiedendo un confronto con la guida Vinibuoni d’Italia, di fatto ha avvertito la necessità di far comprendere più fondo il territorio e con esso le potenzialità della Falanghina, della cui varietà il suo vino rappresenta interpretazione autentica.

Poichè il vitigno Falanghina è utilizzato in molte altre Doc della Campania, sia in purezza, sia in assemblaggio con altre uve a bacca bianca autoctone - Falerno del Massico Bianco Doc, Campi Flegrei Doc, Costa d’Amalfi Doc, Penisola Sorrentina Doc, Capri Doc, Galluccio Doc e Vesuvio Doc – ecco che il vino che ne deriva può diventare il volano e il file rouge di un tour enogastronomico decisamente affascinante in giro per la Campania.

A Benevento non perdetevi la cucina casalinga e storica di Nunzia. La genuinità dei piatti che si ripetono da anni, la semplicità della sala, il piacere dimostrato della proprietaria di sedersi a tavola con te per scambiare una piacevole chiacchierata, sono solo alcuni degli elementi che fanno di Nunzia un luogo unico. Gustatevi la tradizione con il suo Cardone (brodo di pollo con cardi e polpettine), con gli insuperabili Scarparielli (spaghetti alla chitarra con pomodoro), con la salciccia e provola ai ferri e l’ottimo babà accompagnato – siamo a Benevento - da un bicchiere di Strega.

Per trascorrere una notte d’incanto, fatevi indicare la Masseria Roseto ; un luogo di charme e di assoluta tranquillità, dove gli ambienti sono stati restaurati preservando e valorizzando l’antica struttura arricchita con gusto e con tutti i comfort moderni.

Se la Falanghina è il vino guida della Campania, godetevi un giorno di pieno relax al Savoy Beach Hotel nel cuore del parco nazionale del Cilento. Il romantico ristorante “Tre olivi” vi rimette in sintonia con la tradizionale cucina locale, mentre poco distante l’Azienda San Salvatore 1988 concluderà la vostra esperienza con un rinnovato calice di Falanghina a cui ha dedicato le sue affezioni Peppino Pagano. Un tassello di eccellenza che sta trasformando questo lembo di piana del Sele in un vero e proprio paradiso dell’ospitalità e dell’enogastronomia.

Altra tappa all’insegna della Falanghina fatela in Irpinia, dove sul crinale di una collina con panorama mozzafiato troverete, a Torre le Nocelle, l’azienda “I Capitani” con il loro agriturismo immerso tra vigneti e olivi simili a giardini. Qui i sapori di una cucina di tradizione abbinata ai vini di proprità vi faranno apprezzare ulna terra ricca di storia e cultura.

Ancora nell’Irpinia, a Sant’Angelo all’Esca, gli enoappassionati avranno l’opportunità di conoscere un terroir affascinante grazie ai winetour che l’azienda Tenuta Cavalier Pepe prevede per gli ospiti: la visita ai vigneti, alla cantina con la spiegazione dei processi di vinificazione e la visita alla alla bottaia con la dehgustazione dei vini tipici del territorio.

Mario Busso
Curatore Nazionale Vinibuoni d’Italia